Sono cinque le nuove tendenze del bere nel 2018 secondo la redazione di ProWein, in programma dal 18 al 20 marzo a Dusseldorf in Germania: vini più leggeri; la rivoluzione tropicale; il bere locale o a Km0; i vini naturali e gli orange wine. Noi siamo in partenza per Prowein, uno degli appuntamenti must del mondo del vino. Se si fa marketing del vino bisogna andare, bisogna respirare l’aria di questa fiera internazionale dei vini e dei liquori provenienti da ogni parte del mondo.
Sebbene sembra che il mercato mondiale, e americano in primis, sia sempre sostenuto dai bianchi profumati e fruttati e dai rossi barricati, morbidi e dal finale dolce, la ricerca di vini facili da bere, più leggeri in alcool e dall’approccio semplice apre alle cantine italiane nuove opportunità di business e conferma alcune nostre DOC o vitigni tra i prodotti interessanti. Se pensiamo alla immediatezza di un Valpolicella Classico tradizionale, alla freschezza di una Schiava o di un Marzemino, al brio di un buon bicchiere di Prosecco. I vini del nuovo mondo tropicale ci affascinano. Già lo scorso anno abbiamo assaggiato alcune bollicine brasiliane, in grado di stupire, nonostante il nostro approccio scettico all’inizio. Molti di questi vini parlano veneto, e sicuramente italiano, perché frutto delle sapienti mani di vignaioli da generazioni, sbarcati nel nuovo mondo in cerca di fortuna. In crescita la qualità dei vini cileni, che grazie anche a politiche economiche di supporto si confermano sia negli Stati Uniti che in Cina, conquistando quote di mercato crescenti.
Beviamo localmente. Noi italiani siamo maestri del bere locale, come siamo campanilisti in molti altri aspetti. Come spunto di marketing del vino diciamo che bere locale o a km 0 significa anche creare una cultura sui prodotti enogastronomici locali, studiare percorsi degustativi in relazione anche alla storia del territorio per fare di una DOC una vera e propria destinazione enoturistica. Bere locale diventa leva per fare branding a livello internazionale.
Sui vini naturali si apre un capitolo molto trattato. “Perché, esistono vini non naturali?” Questa l’affermazione di un nostro amico produttore, impegnato su questo fronte. Cosa significhi e cosa implichi la produzione di un vino naturale non è univoco. Abbiamo capito, chiedendo ad alcuni produttori e informandoci sul web che produrre vini naturalmente significa produrli senza l’aiuto di coadiuvanti chimici, nel massimo rispetto dell’uva e della vigna. Anche l’uso di solfiti viene bandito. Per esperienza si possono incontrare grandi sorprese, grandi produttori e grandi vini. La loro delicatezza (specie durante trasporto e stoccaggio) li rende vini per intenditori, che sappiano maneggiarli con cura.
Gli orange wine saranno il nostro focus. Vogliamo capire meglio, di più. Da italiani siamo abituati ai tre colori del vino, bianco, rosso e rosè. Ma se pacificamente abbiamo compreso l’umami, che si è unito ai sapori dolce, salato, acido e amaro come quinto gusto, vogliamo capire anche l’orange. Gli anglosassoni hanno etichettato così i vini prodotti da uve bianche attraverso la macerazione prolungata. Ci vengono in mente alcuni Pinot Grigi del Friuli. Il mosto in fermentazione rimanendo a lungo in contatto con le bucce, si arricchisce di tannini e assume un colore arancione con tendenze ambrate.
Abbiamo scoperto che in alcuni paesi, in particolare la Georgia, in vini orange vengono denominati ambrati. A scuola di sommelier questa tecnica di vinificazione si definisce “in rosso”. Andremo alla ricerca di qualche produttore interessante per inserire nella tavolozza della nostra esperienza sui vini un nuovo colore.
Sempre più tappo a vite, sempre meno preconcetti. I millennials, nuovo cluster di bevitori, sono mossi da curiosità, accesso alle informazioni e sensibilità al green. Hanno ben pochi preconcetti nei confronti di una chiusura alternativa al sughero, specie quando la parola d’ordine di un vino è piacevolezza.